Archivio per dicembre, 2021

Chiara era mora e faceva girare le teste. Chiara era finita nei cinquantuno del Piolet. Chiara riusciva a respirare solo in salita, dormiva bene solo accovacciata su una cengia, e sentiva forte la vita solo quando se la giocava ai dadi sulla punta dei polpastrelli. Solo era anche la parola preferita di Chiara. Per lei una cosa era solo o non era. Io invece. Appena dopo i trentacinque avevo già in testa un mocio sale e pepe. Pepe, si fa per dire. E le teste rimanevano fisse. A guardare altrove. Avevo iniziato a scalare tardissimo, dopo decenni di subacquea. La chiamavo verticalità inversa, che faceva fico. Detta così sembrava qualcosa di propedeutico. Di exploit, nomine, premi, nemmeno a parlarne. Ma soprattutto, dopo dieci anni di strizza, mezze chiamate della signora oscura, e un fulmine che mi aveva lasciato sorda per tre mesi, io avevo chiuso. Di alpinismo volevo sentirne parlare sì. Sui social network, però. In televisione, le due o tre volte l’anno in cui Alex mi convinceva ad accenderla. Quell’inverno sognavo già la mia muta nuova. Il tuffo morbido nella verticalità inversa. E questo anche se l’unica volta in cui me l’ero vista davvero brutta era stata a meno quaranta. Metri.

Quindi perché proprio io? Perché Chiara continuava a insistere? Con tutta la gente che sbrodolava per accompagnarla in capo al mondo. Uomini e donne. Perché voleva me per quella parete maledetta?

“La possiamo salire solo così.” Solo. Appunto. E al telefono aveva quella voce lì, quella che conoscevo. Quella che ti lasciava sul palato il sapore ferroso della paura ancora prima di riuscire a rispondere.

“Non lo so. Sto attraversando una fase strana.” Se la prendevo da lontano, magari riuscivo a fare breccia. “Sono completamente disallineata rispetto ai miei desideri. Hai presente?” Il gorgo mugugnante significava che no, non aveva presente. “Quando vuoi essere da qualche parte, ti sforzi e poi finalmente ci sei. Ma appena ci sei ti accorgi che vorresti essere altrove.”

“Hai ripreso con quella robaccia.” Forse ero stata troppo vaga. “Adesso vengo lì e lo prendo a calci in culo.”

Si riferiva alle benzodiazepine. Come con la verticalità inversa, dirlo così faceva più fico. Xanax suonava troppo patologico, infantile quasi. Xanax era la parola che usava Alex. Giovane medico, ex alpinista estremo, guarito, diceva lui, grazie all’autoaiuto. E allo Xanax. Le benzodiazepine gli avevano tenuto a bada l’ansia nel periodo terribile del distacco. Poi, come tutti i tossici era andato a scalare, nel senso di diminuire. Prima con l’alpinismo grazie allo Xanax. Alla fine con lo Xanax grazie alla vita. Il pilotto d’ordinanza te lo propinava con le braccia semiaperte e la calvizie protesa e il mento appena sbarbato da ducetto. Non c’era da meravigliarsi che a Chiara stesse sulle palle. In senso figurato, ovvio.

“Alex non c’entra niente. Non è Alex che decide cosa posso o non posso fare.” Chiara si schiarì la gola sul mio timpano. Andai oltre, fingendo di non aver capito. “È che in questo periodo. Hai visto che succede in Cina?” Magari se la prendevo da lontanissimo. Chissà.

“In Cina succede ogni cinque anni. Non è roba che ci riguarda.” Chiara era una biologa che studiava le cause ecosistemiche delle epidemie. Il che faceva molto più fico della verticalità inversa e delle benzodiazepine. Certo, la mezza idea che mi ero fatta non era vaga, di più. E Chiara evitava l’argomento lavoro come le creste. Troppa esposizione e troppo marciume da gestire. Eppure, avevo imparato che lanciare la palla nel suo campo poteva tornare utile. La scollava per un po’ dalle sue fisse. “E poi che c’entra la Cina. Che fai cambi discorso?” Non stavolta però.

“Hanno messo in quarantena una città intera.”

“Senti, dobbiamo vederci. Al telefono non si può. Ci si capisce solo di persona.” Solo non era semplicemente la sua parola preferita. Solo era il muro fra presente e passato. Era un traverso impossibile da disarrampicare. Dopo solo, indietro non tornavi.

“Senti ma perché proprio io? Ce ne sono cento più forti di me che ti pagherebbero per.”

“Ci vediamo al solito posto. Domani alle sette. Devi portare solo due cose. Qualche idea e la mia socia. La sguattera di Alex lasciala a casa, fai il favore.” Vaffanculo sarebbe stata la risposta giusta. Mandarcela era quello che volevo con ogni cellula. Ma lei tirò dritta, come dopo ogni solo. E io e i miei desideri, era lampante, ci incontravamo di rado e per puro caso ormai. “La scorsa settimana sono stata da Patrizia ed era come sospettavo. Roberto aveva preso appunti.”

“Sei andata a rompere le palle a Patrizia? Io non.”

“Domani. Solito posto.”

“La Cengia” ha vinto il premio nazionale Roberto Iannilli. Il resto del racconto lo trovi in “Montagna dentro“, Edizioni del Gran Sasso