Episodio 1 

Nei narrabit precedenti … Mara, la detenuta 88, viene portata via per l’ultima ora d’aria. Anna e Lisa, le due secondine di turno nel braccio H, trovano un dipinto indecifrabile sulla parete della sua cella. Sotto allo strato di vernice, un testo. Lisa legge, Anna trascrive. Le parole di Mara raccontano la storia di una donna che fugge braccata dalla polizia. Con la sua complice sono state sorprese durante una rapina … Alzo i tacchi e accorcio la gonna. Non c’è posto migliore di quello più evidente per nascondere qualcosa. Guardo l’orologio. E’ ora di andare. Ho ancora 30 minuti di anonimato. Ce la posso fare.

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002b_itacchiLow cost. Due parole che nel mio vocabolario di fuggiasca hanno un solo significato. Niente personale al gate, strisci la carta di imbarco e il tornello ti lascia passare. Ovvero, meno testimoni. Meno occhi in grado di annuire quando gli investigatori di turno inizieranno a mostrare in giro la mia faccia. Mi scuso con la capo cabina per il ritardo e mi allontano rapidamente lungo il corridoio. Mentre passo fra i sedili sento gli sguardi degli uomini posarsi sui miei fianchi, scendere lungo le gambe nude e immaginare quel poco che i vestiti nascondono. Mi siedo in economica accanto a una signora anziana che storce la bocca accennando con il mento all’uomo della fila accanto che mi divora con lo sguardo – Uomini – mi sussurra all’orecchio – Ai miei tempi era lo stesso – Annuisco. Senza saperlo, la signora ha centrato la questione. Uomini. Se non fosse per loro il sedile accanto a lei sarebbe vuoto e tutto questo non avrebbe mai avuto inizio.

Il telefono vibra quando ormai abbiamo superato le Alpi. Avvisa la pantera che la tana è pronta. E visto che ci sei, porta pure un bel cacciatore. Tim è uno dei pochi uomini che riescono ancora a strapparmi un sorriso. Ma è gay. Quindi di solito non lo aggiungo alla lista. Lo conosco dai tempi dell’università. Quando lavoravo e studiavo fra Redhill e Londra. E’ stato lui a presentarmi Lindsey, la donna che avrebbe cambiato per sempre la mia vita – E’ il capo del Wosum – mi disse con una vena di orgoglio – Il Women Supremacy Movement. No grazie – gli risposi – Mi  sono bastate mia madre e le sue farneticazioni sulla proprietà dell’utero – Ma il Wosum era tutta un’altra storia – mi assicurò Tim. Donne che non cercavano la parità ma la supremazia. Donne che non intendevano prevalere diventando uomini mancati. Ma rivendicando la femminilità come arma del predominio. E dopo aver conosciuto Linsey capii cosa intendesse Tim. Una donna capace di indossare il tubino di raso e la divisa da assalto con la stessa disinvoltura. Tenera e accogliente. Intuitiva e sensibile. Eppure dura come l’acciaio. E con un solo motore nella vita. L’odio per la stupidità maschile e la soddisfazione estrema che provava nel ridurre gli uomini a poco più che vibratori animati. Per Lindsey tutto era nero o bianco. Occhio per occhio, dente per dente. Tre mesi dopo il nostro incontro ero entrata nel Movimento. Dopo due anni ero tornata a Roma per dare vita al Mosud. Il Movimento per la Supremazia delle Donne, la cellula italiana del Wosum. All’inizio si trattava solo di sit in e flash mob organizzati nei luoghi simbolo del potere. In quella fase il nostro unico obiettivo era l’espropriazione simbolica in nome del genere oppresso. Vivevamo di nulla e i soldi di Patricia erano sufficienti a coprire tutte le spese. Patricia in realtà si chiamava Carla ed era la figlia di un facoltoso imprenditore romano. Uno che aveva fatto fortuna con la speculazione edilizia e gli appalti truccati. All’inizio si era unita al Movimento più per ribellarsi all’ingombrante figura del padre che per autentica convinzione politica. Poi nel tempo le cose erano cambiate e Carla era diventata una delle attiviste più intransigenti. La sua storia assomigliava fin troppo a quella di Patricia Hearst perché non la convincessimo a scegliere quello come nome di battaglia. Ma i tempi delle vacche grasse non durarono a lungo. Mr Hearst, come avevamo iniziato a chiamarlo, chiuse il rubinetto non appena si rese conto che la figlia era ormai una battaglia persa. A quel punto fummo costrette alla clandestinità. E le rapine iniziarono ad essere l’unico strumento per finanziare la causa. Prima supermercati e centri commerciali per la sopravvivenza. Poi gioiellerie e banche per gli attacchi alle istituzioni. Fu allora che iniziò a scorrere il sangue. E fu allora che il Mosud finì nei titoli di testa. Sempre più spesso accanto alla parola terrorismo o ai suoi derivati.

Lo scossone e la voce del Capitano mi distolgono dal sapore indistinto dei ricordi. Oltre l’oblo le nuvole si rincorrono spinte dal vento. Il profilo dell’ala ci scivola dentro come la lama di un coltello attraverso la nebbia delle valli dove sono nata. Un altro scossone. Il sedile scricchiola. Signore e Signori è il Capitano che vi parla. Stiamo attraversando una zona fortemente perturbata. Siete pregati di riportare lo schienale in posizione eretta, chiudere il tavolino di fronte a voi e tenere allacciate le cinture di sicurezza fino a quando l’apposito segnale verrà spento. Normale amministrazione penso. Siamo sulla Manica e le masse d’aria fredda si scontrano con più forza con quelle calde provenienti da terra. E la vedo, la terra! Sotto al margine grigio dei cumuli i primi raggi del tramonto colorano di arancione le scogliere di Dover. Poi l’aereo si inclina e i ricci bianchi del frangente spariscono, inghiottiti di nuovo dai lampi di un temporale. Stiamo virando. E’ successo qualcosa. La capo cabina confabula vistosamente con la sua collega e la spedisce dal Capitano. Prende in mano la cornetta e impartisce ordini alle altre due assistenti di volo nel settore di coda. L’aereo è di nuovo orizzontale e punta a sud. Stiamo tornando in Francia. Mi volto e vedo la hostess più giovane puntare un dito verso il corridoio e portare la mano alla bocca. La collega le strattona il braccio,  la riprende gesticolando e tira la tendina. Non ci metto molto a capire cosa sia successo. La mia copertura non è ancora saltata ma sanno che sono a bordo. Passeranno con lo snack per controllare uno a uno i volti dei passeggeri e comunicare alla polizia che ci aspetta a Calais il numero del sedile su cui siede la ricercata. L’intervento sarà rapido e indolore. O almeno così sperano, convinti come sono di sfruttare l’effetto sorpresa. Nonostante sia impossibile riconoscermi, so che se mi catturano non riuscirei a reggere l’interrogatorio dei francesi. Il mio personaggio non ha spessore, non ha un passato. Il piano B è appena evaporato e sono costretta a giocare d’anticipo. Apro la borsa e cerco il piano C. Un ishi-ba in ossido di zirconio, un coltello affilato come un rasoio e invisibile ai metal detector. Avrei preferito non dover arrivare a tanto ma se non raggiungo l’Inghilterra per me è finita. Mi scuso con l’anziana signora che mi siede accanto e la rassicuro. Se fa esattamente come le dico non le succederà nulla. Una frase fatta e che nei film di cassetta in genere significa l’esatto contrario. Le leggo questa convinzione negli occhi mentre mi segue lungo il corridoio con un braccio che le cinge le spalle e la lama appoggiata alla carotide. Mente ci avviciniamo alla cabina di pilotaggio le sussurro all’orecchio che sarà lei la mia voce. Qualunque cosa le dico all’orecchio lei la ripeterà per gli altri. In questo modo non avranno registrazioni del mio timbro per i software di riconoscimento. Annuisce e mi risponde che si chiama Lory. Ha capito e sento che si rilassa. Finalmente anche il suo corpo mi dice che accetta le mie condizioni.

Mi chiudo la porta del pilota alle spalle e metto KO il suo secondo – Ce la farai anche da solo – lo incoraggia per me Lory – E ora, per favore, 180° a nord. Si torna verso il Regno Unito – Il Capitano mi guarda perplesso – La destinazione – sottolinea Lory – la decidiamo strada facendo. Di carburante ne abbiamo a sufficienza per arrivare in Scozia e in un aeroporto poco frequentato uno slot di emergenza si trova sempre – Gli strizzo l’occhio perché capisca che conosco il suo mestiere, so leggere gli indicatori di bordo e qualunque tentativo di riprendere il controllo dell’aereo finirebbe per mettere a repentaglio la sua vita e quella dei passeggeri. La sua mano scivola fra tasti e leve per impostare la nuova rotta. Disattiva il pilota automatico e torna sulla cloche per impostare la virata. Ma una volta con il muso di nuovo verso Dover, la vedo compiere rapide evoluzioni sui pannelli al di sopra delle nostre teste e la fermo appena in tempo. Scuoto la testa e Lory parla al posto mio – Lo scrambler dei cellulari lasciamolo acceso, che dici? Non vogliamo mica che qualche solerte passeggero condivida la mia foto sui social network o avverta gli inglesi che abbiamo cambiato rotta? Se ci riprovi, prima taglio la gola della vecchia, poi passo alla tua. Come avrai capito non ho bisogno di te per portare questo pezzo di ferro a terra – Lo vedo irrigidirsi. Mi guarda con gli occhi sbarrati e capisce che non sto bluffando. Sento i pensieri ingolfargli la mente. L’elenco di tutto ciò che ha da perdere scorre veloce sullo sfondo del cielo livido che ci attende aldilà della Manica. La moglie. Forse un paio di figli. La casa nel countryside e la macchina sportiva. L’amante francese e il caldo delle spiagge del lungo raggio. Uomini. Così semplici da leggere. Così facili da prevedere. Una donna come Lory si sottomette per il terrore del vuoto che la sua assenza creerebbe nella vita di chi la circonda. Un uomo come il Capitano si sottomette per la paura di ciò che potrebbe perdere per sé stesso. Ed è per questo che ho scelto Lory come ostaggio. Nella sua immaginazione è la felicità di almeno dieci vite ad essere in pericolo su questo volo. Per l’uomo che tiene la cloche, invece, è solo la sua piccola e insignificante esistenza a rischiare il blackout. Fin troppo facile capire chi dei due, se costretto dagli eventi, opterebbe per l’estremo sacrificio. Privandomi dell’unica leva che ho per uscire indenne da questa situazione.

La situazione si complica. L’airone ha cambiato rotta. Nel grande nido non è più possibile. Fammi sapere dove portare a terra la pantera. Lory digita al mio posto l’SMS  per Tim. Rispondo sottovoce alle rughe che si arricciano sulla sua fronte – Il software del mio telefono è stato programmato per bypassare lo scrambler di serie sugli apparecchi di linea. Magie da nerd – aggiungo. Non ha ancora capito né chi sono né cosa spinge le mie azioni ma giurerei di aver intravisto un accenno di sorriso sul viso di questa vecchietta dall’aspetto bigotto. Qualche minuto più tardi arriva la risposta secca di Tim. Alla pantera ha dato di volta il cervello. Un airone intero? Aeroporto di Huddersfield, West Yorkshire. E fatti venire in mente qualcosa. I francesi hanno mangiato la foglia e gli aironi della Regina sono già in volo. 4 pantere e un elefante veloce è tutto ciò che posso prometterti. Merda. Una parola che riassume le mille sfumature del casino in cui mi sono infilata. L’unica che mi viene in mente mentre rifletto sul da farsi. La Royal Air Force che ci aspetta e solo 4 compagne e un mezzo di trasporto per uscirne. Ora sì che si mette male. 25 minuti mi dice il pilota quando gli comunico la destinazione e spengo i microfoni della sua cuffia. La sorpresa è tutto, mi dico.

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Lisa smise di leggere all’improvviso

25 minuti mi dice il pilota  quando gli comunico la destinazione e spengo i microfoni della sua cuffia – Anna riprese un paio di righe più in alto – La sorpresa è tutto, mi dico. E poi? – chiese alla collega che aveva iniziato a passeggiare nervosamente fra la porta d’acciaio e il muro opposto. La storia aveva iniziato a incuriosirla e conosceva bene quella sensazione. La chiamava la crisi d’astinenza dello spettatore seriale. Sapeva che la fine degli episodi delle soap che riempivano il suo tempo libero era studiata nei minimi dettagli. Pensata apposta per interrompere il coito emotivo e rimandarlo alla settimana successiva. Chiunque conosceva il meccanismo e il misto disorientante di piacere e frustrazione che generava. Eppure lo share non faceva che aumentare. E quella piccola tortura autoinferta aveva la meglio sull’atarassia dell’astensione – E poi? – ripeté impaziente.

E poi questa storia mi ricorda qualcosa. Qualcosa che continua a sfuggirmi – Le rispose Lisa con il tono grave di chi ha intravisto un problema.

Magari se continui a leggere ti torna in mente – le suggerì Anna. Più per dare sollievo ai bruciori della sua curiosità che per interesse per il dilemma della collega.

Lisa esitò, poi ammise con sé stessa che il trucco avrebbe anche potuto funzionare. Salì di nuovo sulla scala e riprese a scollare con delicatezza i colori vividi del pennello di Mara dallo strato sottostante.

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Nudi, sì avete capito bene! – Nonostante sia perplessa quanto loro, Lory finge alla perfezione il tono perentorio dei miei sussurri – Uno va e uno viene come nella storiella del lupo, della pecora e del cavolo – aggiunge – Come scusi? Lupo, pecora, cavolo. Ma di che parla? – ci chiede la voce roca e gracchiante di Nelson Percey, della Polizia di Huddersfield. E il silenzio che segue mi convince che in una piccola cittadina di provincia i negoziatori sono come le auto. Datati o di seconda mano. Guardo l’orologio. Devo accelerare i tempi. Ho solo una manciata di minuti prima che anche il piano D sfumi come neve al sole.

Il piano D. Non sono mai arrivata fino al piano D. Ma d’altra parte non ho mai dirottato un volo internazionale prima d’ora. E il vantaggio che pensavo di avere grazie all’effetto sorpresa dell’aeroporto di destinazione è svanito insieme al rollio del carrello. Non appena lo stridio dei pneumatici ha annunciato a tutti che eravamo finalmente in territorio inglese. Gli aerei della RAF, infatti, dopo averci seguito dalla Manica in poi, sono riusciti ad avvisare le autorità locali. Giusto in tempo perché al momento dell’atterraggio la pista fosse invasa dalle camionette bianche a scacchi blu e gialli. Ed è stato sulle prime frasi di Nelson Percey che ho archiviato il piano C. Raggiungere le compagne e allontanarsi su un mezzo a 4 ruote era impensabile. A quel punto ho avvisato Tim e gli ho chiesto un’altra destinazione per il rendezvous. Un luogo aperto, ho sottolineato. Niente alberi. Il piano D ha bisogno di ampi spazi.

Una pistola scarica, un caricatore e una borsa nera con un milione di sterline in tagli piccoli – gli spiega Lory scandendo le sillabe. E cosa c’entrano i tre agenti nudi? – le chiede Percey con il tono esausto di chi si sforza ma continua a non capire – Nudi perché cosi non possono nascondere armi, telecamere o microfoni – ribatte lei spazientita dando voce alla mia irritazione. Idiota di un negoziatore, penso. Immaginando la sua reazione alla spiegazione della storiella che sto cercando di semplificare fino a renderla a prova di Percey. Il primo agente porta la pistola scarica – inizia Lory con l’incedere paziente di una nonna che spiega come attraversare la strada al nipotino ritardato – In fondo alla scaletta di accesso alla cabina se la punta alla tempia e preme il grilletto una diecina di volte. Almeno siamo sicuri che sia realmente scarica. Poi sale e me la consegna. Il secondo agente porta la borsa. Il terzo porta il caricatore – dall’altra parte del microfono sento Percey in affanno e i suoi polpastrelli che battono freneticamente su una tastiera – vado troppo in fretta Nelson? Glielo detto più lentamente? – guardo l’orologio al polso del pilota – Direi che 6 ore sono sufficienti. Ah – faccio aggiungere a Lory – mi aspetto anche un elicottero pronto a partire sul lato del velivolo opposto a quello della torre di controllo. Sì, ha capito bene Nelson, esattamente dove il fuoco dei cecchini che avete in cima agli edifici non può raggiungerci. Ovviamente anche il pilota dell’elicottero sarà nudo. E riempite i serbatoi a dovere che io e la mia amica Lory abbiamo un lungo viaggio da affrontare.

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003la cellaCoincide tutto. Possibile che non ricordi? – Lisa si colpì la fronte con il palmo e scese di corsa dalla scala.

Anna la guardava con gli occhi spenti. Le sarebbe piaciuto condividere con lei quel frammento del passato. Ma l’ultimo telegiornale che aveva visto risaliva ai tempi della scuola. Quando la prof di italiano era riuscita a spaventarla con il tema di attualità.

Linda passeggiava su e giù con gli occhi socchiusi. Cercando di dar voce al nome che le saltellava sulla punta della lingua. Poi all’improvviso spalancò le palpebre – Cinzia qualcosa. Il cognome mi sfugge. La vice di Mara nel Mosud. Si dice che quelle due fossero come le due facce della stessa medaglia. I detrattori del Movimento hanno sempre sostenuto che fossero lesbische.

E quindi? – chiese Anna con il dito pronto sui tasti virtuali del tablet, in caso fosse necessario prendere appunti. Almeno in quello sapeva di essere imbattibile. Veloce. Impeccabile.

E quindi questa è la storia della rocambolesca fuga di Cinzia. Quando Mara fu catturata, Cinzia riuscì a scappare. Il dirottamento, i poliziotti nudi sulla pista dell’aeroporto di Huddersfield. Quelle immagini rimbalzarono su tutti i media di allora. E periodicamente la Rete e i documentari ne parlano – un sorriso interruppe per un momento la serietà dei suoi pensieri. Se Anna non si fosse concentrata sulla divisa che indossava la collega, avrebbe potuto pensare che Lisa la ammirasse, quella terrorista fuggiasca – Da allora nessuno sa dove sia finita – proseguì Lisa – E’ uno dei più importanti casi irrisolti della storia del crimine.

L’occhiata di rimprovero che ricevette ricordò ad Anna che non era questione di seguire i programmi di approfondimento in TV. Quella era materia di studio nei corsi per gli effettivi della Polizia Penitenziaria. Come diavolo aveva fatto a passare l’esame se non si ricordava nemmeno della più famosa fra le storie di criminali a piede libero? A Lisa gliela leggeva nello sguardo quella domanda – In effetti, ora che me lo dici, anche a me ricordava qualcosa – provò a mentire con gli occhi fissi sullo schermo del tablet.

Scherzi a parte, dobbiamo chiamare subito il comando dei Carabinieri – Lisa passò oltre, ormai allarmata dalla sua stessa scoperta – Se non ricordo male fu un certo Corsi a guidare l’intervento quel giorno. E fu sempre lui a seguire le indagini fino a quando Cinzia sparì nel nulla e il caso fu archiviato.

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Leandro Corsi era un uomo ormai curvo sotto il peso dei suoi 70 Natali. Era così che lui stesso apostrofava l’inclemenza con cui il tempo aveva consumato il suo corpo. Malediceva il giorno della nascita di Cristo per questo. Le feste, le bisbocce, le folle di parenti. Per Corsi il Natale era diventato il simbolo della trascuratezza nei confronti di sé stesso. Causa unica del male che lo aveva piegato, costringendolo ad andare in pensione prima di aver risolto il caso più importante della sua carriera. In realtà, però, chi conosceva la sua storia sapeva bene che Natale era il nome che Corsi dava alla macchia indelebile sul suo orgoglio di servitore dello Stato. Da quel 25 dicembre del 2020, infatti, il solstizio d’inverno era diventato per lui l’inizio di un periodo di purificazione attraverso il dolore. Un cammino che terminava un paio di settimane più tardi. E durante il quale si torturava fra stralci di quotidiani, foto e video della rete, vecchi verbali e appunti del suo taccuino. Era come se pensasse che rivivere l’umiliazione lo avrebbe aiutarlo a sciogliere l’unico nodo che realmente lo interessava. Non era mai riuscito a capire, infatti, perché il mondo lo ricordasse come il Carabiniere che si era fatto sfuggire Cinzia. Una sottoposta. E non come quello che aveva catturato Mara. Il capo.

La data è sbagliata – grugnì con la mano tremante che indicava le prime righe sulla parete della cella. Si sedette sulla branda che era stata di Mara e portò la sigaretta alla bocca. Senza aspirare lasciò che il fumo lo costringesse a socchiudere la palpebra sinistra – quella stronza di una terrorista se l’è svignata il giorno di Natale – aggiunse – e Mara lo sapeva bene.

Perché dunque iniziare il racconto con un errore così vistoso? Era davvero la storia di Cinzia quella che Mara aveva riassunto sotto al suo dipinto? Quelle domande rimasero sospese mentre gli occhi stanchi dell’anziano colonnello correvano di riga in riga. Se le faceva Lisa. E per un’istante passarono anche nella mente di Anna. Che, però, se le scrollò dai pensieri con un alzata di spalle. Se non gli dava voce la sua collega, non sarebbe stata di certo lei a rischiare l’imbarazzo di frasi fuori luogo.

Siete sicuri che la detenuta non abbia avuto contatti con l’esterno negli ultimi 40 anni? – La domanda di Corsi non era retorica come pensava il Direttore del carcere. E quando l’ex ufficiale si voltò verso di lui, il suo sguardo accigliato gliela ripeté più incisivamente.

L’uomo in giacca e cravatta, che fino a quel momento non aveva fatto che annuire in silenzio, si sentì in dovere di precisare – E’ stata in cella di isolamento per 4 decenni. Un’ora d’aria e 23 fra queste mura. Nessuna visita. Niente posta. Solo questo muro da scarabocchiare. E nemmeno dall’inizio. E’ stata una conquista recente dell’Associazione per i Diritti dei Reclusi. Una diecina di anni fa le è stato chiesto di scegliere fra il libri e le vernici. E lei ha scelto le seconde. Allora ci disse che le storie preferiva inventarle che leggerle. Ma non avremmo mai immaginato questo.

Corsi si aspettava almeno una scintilla dell’intuizione che un uomo nella sua posizione avrebbe dovuto avere. Ma lo sguardo vuoto del Direttore gli fece pensare che forse non tutte le idee del Mosud erano strampalate farneticazioni di donne che odiano gli uomini. I maschi come quello che aveva di fronte erano veramente delle casse vuote, buone solo a fare eco ad una voce che dall’esterno gli gridasse dentro qualcosa di sensato. Si voltò e, quasi a conferma di quel suo lampo di complicità, trovò la scintilla che cercava sul viso di Lisa – La faccia, agente, la domanda che la tormenta – la incitò.

Lisa inghiottì l’imbarazzo e si lanciò senza rete – Come faceva Mara a conoscere i movimenti di Cinzia se non aveva alcun contatto con l’esterno?

Un sorriso illuminò le rughe del Colonnello che accartocciò il filtro della sua Philip Morris in terra e si alzò dal letto. Anna strizzò l’occhio e annuì il suo appoggio in direzione della collega. Felice che non fosse toccato a lei cimentarsi – Bella domanda, Lisa – commentò Corsi leggendo il nome sulla mostrina che la ragazza aveva appesa alla camicia – veramente una bella domanda. Magari riesce ad aiutarmi ad arrivare alla fine della storia. Così vediamo di capire un po’ di più – e con un gesto la incoraggiò a rimuovere il resto della vernice e a proseguire nella lettura.

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Yorkshire, Nottinghamshire, Leicestershire, Northamptonshire. Sgattaiolare fra le contee e tornare a Londra via terra è stato un giochino da ragazzi. Lindsey mi ha accolto come una sorella. Mi ha dato un posto dove stare, una nuova identità e un lavoro che non dà nell’occhio. Il Wosum è la mia nuova famiglia. Vivo a Camden e ho un banco al mercato. Con il PC e un modellatore tridimensionale laser costruisco e vendo gioielli. Pietre, argento, sassi. Lavoro qualunque materiale che possa essere sezionato e incastonato. Sul mio passaporto c’è scritto Catherine Black ma le compagne mi chiamano Pant. Nessuno sa perché ma fra noi ci capiamo. Dopo la cattura di Mara quel soprannome, pantera, è l’unico ricordo che mi lega ancora a lei. Lo usavamo per distinguerci dalle altre e per comunicare usando un codice che capivamo solo noi. Più per gioco e per complicità che per reali timori per la sicurezza. Pantera era un rimasuglio dell’infanzia di due figlie uniche che si erano scoperte sorelle nella causa. Ma era anche il nostro modo di ironizzare sugli uomini e sull’inconfessabile sogno che la maggior parte di loro condivide. Quello della donna dominatrice. Del felino seduttore.

Allora me le fai provare le tue famose ciambelle? – In realtà Jack ha in mente ben altro. Mi sta dietro da settimane. Ha comprato da me un anello per la sorella e da quel giorno è sempre qui. Arriva alle 12 quando inizia la sua pausa pranzo. Alla lavanderia due isolati più avanti gli danno poco meno di un’ora e lui viene al banco e mi aiuta con i clienti. Si vede lontano un miglio che non ha occhi che per me. E devo dire che, nonostante capisca un terzo di quello che il suo slang produce, quando mi tocca anche i miei ormoni si agitano fuori controllo.

Solo se mi aiuti a farle – gli rispondo – Le ciambelle italiane sono il frutto di un’arte occulta tramandata di generazione in generazione attraverso i millenni. Non puoi apprezzarle fino in fondo se prima non ti sporchi un po’ del bianco della farina – E mentre lo prendo in giro immagino le sue mani nell’impasto insieme alle mie. Le sue labbra sul collo e intorno ai capezzoli. Poi sospiro, cercando di spostare la mente su qualcos’altro. Il codice del Movimento è chiaro su questo. Vibratori animati, gli uomini non sono altro. E come tali vanno trattati. Il Wosum non ha nulla contro l’accoppiamento. Anzi lo promuove nelle sue forme più estreme. Ma le compagne che si fanno coinvolgere, in genere, finiscono male. Nella vita di nessuna di noi è prevista la presenza continuativa di un maschio. Siamo le sacerdotesse di un culto senza Dei che considera il piacere della carne come uno strumento per riaffermare la supremazia. Il sesso è una delle armi per il campo di battaglia. Non l’occasione per ricercare l’intimità e costruire un sodalizio unico. Se lo invito da me, devo concentrarmi sul codice. Ho una reputazione da difendere. Nonostante la fuga, rimango comunque la vice comandante in capo della cella italiana e non posso permettermi passi falsi. L’asilo e la copertura del Wosum sono l’unica garanzia per la mia sopravvivenza di clandestina. Eppure sono convinta che Jack non è come gli altri. Lo sento che la sua vicinanza è autentica. I suoi sentimenti completamente disinteressati. Ma ciò che vedo in lui è la realtà o la proiezione di una mia debolezza? Debolezza. E’ così che il Movimento chiama il desiderio della vicinanza spirituale di un maschio. E’ sulla strumentalizzazione di quella debolezza che si è basata la repressione del nostro genere attraverso la Storia. Se questo è l’errore di tutte le nostre antenate perché a me sembra così naturale e appagante? Perché il solo immaginare il viso di Jack sul cuscino accanto al mio, giorno dopo giorno, mi rende felice come se già fosse realtà? Sto divagando. Sto perdendo la presa sull’unica ancora che fino a oggi mi ha tenuto salda durante varie tempeste. Il codice. Devo concentrarmi sul codice.

La carne e il codice parlano la stessa lingua. Ma c’è una parte del mio corpo che si sente straniera nella sua terra. E’ una zona delicata poco sopra l’ombelico. Soffice, nonostante sia ricoperta dai muscoli dell’addome. E che diventa leggera, quasi inesistente, quando lui è accanto a me. Non so darle il nome di un organo perché di tanto in tanto si muove. La chiamo semplicemente la bolla. Si gonfia. Ti riempie. Ma per farla crescere devi soffiarci dentro. Con attenzione, perché la sua superficie è fragile. La carne e il codice sono il cibo di noi guerriere. Rappresentano i binari su cui depositiamo la nostra forza di individui e attraverso la quale spingiamo i vagoni della nostra battaglia. La bolla, invece, dicono sia una debolezza. Non il cibo ma la droga del nostro spirito. Più la alimenti, la bolla, più lei assume il controllo. Più cresce, più rischi di renderti conto che non è lei dentro di te ma l’inverso. E allora perché sto così bene quando la bolla si espande? Perché la natura non ci ha dotato di un allarme, e invece di dolore proviamo piacere? Sono queste le domande che mi pongo mentre il mio sguardo vaga fra la luce fioca del mattino e la nuvola rossa dei suoi capelli. Sul comodino intravedo i resti accartocciati del suo vizio. In terra i vestiti sparsi dal nostro desiderio. E’ così da mesi ormai. Ci incontriamo in posti sempre diversi. Ci divoriamo con gli occhi e le nostre menti si fondono in un fiume di parole che non appartengono a nessuno dei due ma a entrambi. Il tempo non esiste e ci vola accanto come fossimo immobili in tutti adesso che consumiamo fino all’osso. La notte ci nasconde e il suo appartamento ci accoglie. Nudi. Voraci. Insieme. Gli ho spiegato quanto sia importante che nessuna delle mie amiche sappia di noi. Non sono scesa nei particolari ma sembra aver capito. Sarebbe disposto a qualunque privazione pur di potermi stare accanto. E per me è lo stesso. Odio me stessa per questa rivelazione. Va contro tutto ciò in cui credo e per cui ho combattuto finora. Va contro la mia sorella che marcisce in galera. Penso molto a lei in questi giorni. E più passa il tempo, più mi sembra di tradire il nostro legame. Eppure da qualche parte, dentro di me, so che lei capirebbe. Perché, quando ci incontrammo in quell’afoso giorno d’estate, lei mi parlò di felicità. Quella insita nella lotta per una causa e nella condivisione di un grande progetto. Ed è sempre di felicità che le parlerei io oggi. Quella di aver trovato un uomo che non è solo un maschio ma un compagno di vita. Quella della bolla che rende soffice il mio ventre e luminosi i grigi giorni di pioggia. Sì, lei mi capirebbe.

Il giorno in cui tutto sarebbe finito inizia come tutti gli altri. Presto, sotto la pioggia, al mercato che è il mio lavoro e la mia vita allo stesso tempo. La ferita che le ho procurato la leggo sul suo viso prima ancora che parli. Mentre a grandi falcate si fa spazio fra la gente e si avvicina al mio banco. Non è la Linsey accogliente quella che mi cerca, ma il capo di un’unità durante un’azione sul campo – Sei un’idiota! Ti avevo avvisata ma tu niente! – mi dice con le narici divaricate dal disprezzo – Appena sei arrivata ho combattuto per te. Le compagne mi dicevano che eri un pericolo. Una testa calda. Una meridionale senza spina dorsale. Le ho accusate di sciovinismo. Ti rendi conto? Gli ho detto che si comportavano con te come i maschi con noi lungo tutta la storia del genere umano. Ed è così che mi ripaghi? – La guardo senza capire di cosa parli. Cerco di controbattere ma lei scuote la testa e getta un tablet sul ripiano degli attrezzi – Leggi – e mi indica lo schermo.

Episodio Finale

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